Con il Comunicato del 7 gennaio 2016 l’ISTAT ha diffuso i dati della disoccupazione in Italia,
il Presidente del Consiglio non ha perso tempo a cinguettare la sua gioia.. ma le cose in realtà stanno in maniera diversa.
La disoccupazione in Italia si abbassa a suon di Twitter.
I 160 caratteri del social network americano sono pochi per spiegare come stanno veramente le cose cosicché la gente né abusa a proprio piacimento per dire tutto e alla fine non dire niente.
Ecco quindi che l’11,3% di disoccupazione sbandierato con entusiasmo dal Presidente del Consiglio non è poi un dato tanto esaltante per il nostro Paese se con pazienza ed interesse si va a leggere tra le righe.
Il primo motivo di disappunto è perché se confrontato con l’indice di disoccupazione dei 28 Paesi dell’Area EU, il nostro dato ci relega al sestultimo posto della classifica europea davanti solamente al Portogallo, a Cipro, alla Croazia, alla Spagna e alla Grecia ma dietro a tutti gli altri come Germania, Francia, Olanda, etc
Il secondo motivo per non esaltarsi più di tanto è nel metodo con cui vengono effettuate queste rilevazioni. A dirlo è proprio il Presidente dell’ISTAT Giorgio Alleva nel suo intervento davanti al’11 commissione “lavoro, previdenza sociale” tenuta a Roma presso il Senato della Repubblica; in tale sede, infatti, lo stesso precisa che “occupata, ai fini del calcolo ISTAT, è considerata quella persona di 15 anni e più che nella settimana a cui sono riferite le informazioni presenta almeno una delle seguenti caratteristiche: 1) ha svolto almeno un’ora di lavoro in una qualsiasi attività che prevede un corrispettivo monetario o in natura; 2) ha svolto almeno un’ora di lavoro non retribuito nella ditta di un familiare nella quale collabora abitualmente; 3) è assente dal lavoro (ad es. per ferie, lavoro o cassa integrazione). Per quanto riguarda i dipendenti, quelli assenti dal lavoro sono considerati occupati se l’assenza non supera tre mesi, oppure se durante l’assenza continuano a percepire almeno il 50% della retribuzione” e chiude precisando che “ le precedenti condizioni prescindono dalla sottoscrizione di un contratto di lavoro… pertanto anche forme di lavoro irregolare”
Ora pochi di noi sono esperti di numeri, figurarsi di statistiche, ma leggendo i criteri usati per calcolare l’occupazione e di conseguenza il suo opposto, la disoccupazione, si percepisce che proprio, proprio ma proprio… i numeri comunicati alla popolazione non posso essere considerati precisissimi.
Infatti all’interno del calcolo, per indicare la forza lavoro, l’ISTAT considera anche il lavoro nero che per sua propria natura risulta essere errato in quanto, ed anche ovviamente, è difficile conoscere il numero esatto dei lavoratori senza contratto. In pratica è come inserire la droga e la prostituzione nel calcolo del PIL per l’Italia… alla fine i dati saranno sempre e comunque imprecisi perché difficilmente calcolabili e quindi illusori.
Il terzo motivo per non fare i salti di gioia è che dai dati raccolti si nota che il mondo del lavoro italiano (come anche quello europeo) sta invecchiando e l’aumento del tasso di occupazione si è avuto, per la maggior parte, tra le persone più adulte. Questo significa che, nonostante tutti i proclami fin qui fatti, ancora non si sta facendo abbastanza per mutare l’economia del nostro Paese verso un modello economico in cui il capitale umano è il fattore rilevante e carattere essenziale per creare innovazione.
Il generale americano Artemus Ward soleva dire: “non sono tanto le cose che non sappiamo a metterci nei guai, quanto quelle che sappiamo e che non sono così.”
In finale se davvero in Italia la disoccupazione è scesa non è certamente per l’entrata a regime del Jobs Act che ha creato molti meno posti di lavoro di quanto si credeva ma perché sono aumentate le partite IVA (giovani professionisti che sperano di farsi largo tra le caste), gli inattivi (quelli rassegnati di cercare) e per ultimo i “cervelli in fuga” (giovani laureati che sperano di trovare all’estero quello spazio che in Italia non riescono ad occupare).